Nell’anno del Giubileo, decisi di compiere un’opera di misericordia animale. Possedevo già diversi cani, per lo più salvati da situazioni di estrema vessazione, ma non mi ero mai dedicata ad uno che stesse morendo. Così, in una mattina di primavera, andai al canile di Orvieto e chiesi quale fosse il cane più malato, quello che avesse la maggior dose di sofferenza alle spalle e minor tempo da vivere. Volevo farlo morire a casa, sentendosi finalmente amato.
Conobbi allora Bianchina, una sorta di spinone bianco dal pelo tutto arruffato, che viveva da sei anni in quella gabbia e la cui vita era stata solo dolore: cardiopatica, devastata da un tumore, con fratture calcificate in tutte le ossa e un corpo sfondato da innumerevoli gravidanze, le mammelle che sfioravano terra. La candidata ideale.
Arrivò a casa mia portata dalla volontaria del canile in un crepuscolo di maggio. La luce era meravigliosa e la natura intorno, un inno alla vita. I miei cani giocavano felici sul prato e quando la nuova arrivata scese dalla macchina, con mia grande sorpresa, la ignorarono.
Spaventata da quegli ampi spazi, Bianchina si rifugiò subito in una cuccia di legno che nessuno usava più e lì rimase per tre giorni. Sono abbastanza certa che si fosse convinta di essere morta, che quello fosse il paradiso dei cani e che io fossi un angelo che la dissetava e la nutriva. Al terzo giorno uscì dalla cuccia e, grazie probabilmente alla memoria della sua vita di randagia, per prima cosa si avventò su un giovane capretto che viveva in fattoria. Per fortuna non riuscì a sbranarlo, ma quello fu in qualche modo il suo rendersi conto di essere ancora viva e che la vita meritava passione.
La portai da un bravo veterinario e le feci asportare il tumore, incominciando a curare anche la sua cardiopatia. Dopo un po’ di mesi, Bianchina capì che si poteva anche entrare in casa dove scoprì l’esistenza di vari giacigli e subito scelse come suo quello più vicino alla stufa. Il branco lentamente l’accettò, così come lei cominciò ad accettare le carezze, i grattini dietro le orecchie e sui pettorali, insomma tutte quelle dimostrazioni di amore che mai aveva conosciuto nella sua vita.
All’inizio sembrava quasi imbarazzata, inquieta, ma poi, cominciò a lasciarsi andare, con grandi sospiri di beatitudine. Ogni volta che mi vedeva entrare in una stanza cominciava a battere ritmicamente la coda come un metronomo e non smetteva finché non uscivo. Bianchina, ne sono certa, provava il sentimento della gratitudine, un sentimento complesso, che richiede un grado di coscienza non indifferente – e che purtroppo sembra essere ormai estraneo alla maggior parte degli esseri umani. Secondo i veterinari non avrebbe potuto superare l’inverno e invece visse con noi ben sei anni. Si spense lentamente, ormai paralizzata. Anche senza forze, ogni mattina continuava a fare il metronomo, sollevando appena la testa dal giaciglio per salutarci. Ci ha lasciato la domenica delle Palme del 2006 mentre le campane del paese suonavano a festa, e in quel momento ho avuto la certezza che un’anima santa avesse raggiunto il cielo. Che cosa sono infatti i cani se non creature messe al nostro fianco per insegnarci la totalità dell’amore?
“Sempre più spesso,” scrivevo nel mio libro Ogni parola è un seme, “camminando tra i prati soprattutto in primavera, mi capita di trovare delle talpe morte. Non hanno ferite né segni di malattie. Sembrano piuttosto subacquei che sono stati in apnea troppo a lungo, arrivano in superficie con la bocca spalancata, come se gridassero “aria”! Passeggio e raccolgo corpicini di talpe invece di fiori. Accarezzo il loro pelo straordinariamente morbido e mi chiedo: “Perché?” Perché queste morti da apparente mancanza di ossigeno? A questo purtroppo ho saputo rispondere quasi subito. Le talpe muoiono avvelenate. Quando vediamo l’erba ingiallire nei campi e non è autunno e non c’è siccità, quando l’erba, invece che giallo paglia, diventa arancio, vuol dire che è stato gettato in abbondanza del diserbante. Il veleno, infiltrandosi nelle radici, ha avvelenato la terra e tutto ciò che nella terra vive: gli insetti, i lombrichi, le larve e naturalmente, le talpe. “Aiuto!” gridano le talpe uscendo”Aiuto!” L’evoluzione aveva previsto tutto, ma non certo di dotare le talpe di una maschera antigas, di polmoni e di fegati di ricambio. “Aiuto” chiedono le talpe, ma a chi lo chiedono?”(…)
“Quanta stupidità, quanta cecità, quanta ignoranza nei confronti del mondo naturale!” osservavo sempre in quel saggio del 2004. “E sono questa stupidità e questa ignoranza che ci hanno condotti ora alle soglie della follia, della distruzione totale! Quanta straordinaria ottusità da parte anche della Chiesa che, proprio nel nome di Cristo, dell’alfa e dell’omega, avrebbe dovuto far nascere e lievitare ovunque il principio della condivisione e della responsabilità! Non si rivive forse il dramma di Cristo nel mistero, nella morte violenta di ogni creatura, nello sguardo sbarrato dell’ultimo istante che si volge verso l’alto e chiede: “Perché?” (…) Lo sguardo dell’animale ci interroga. C’è paura nei suoi occhi, terrore. Non eravamo noi, noi fatti ad immagine e somiglianza del Creatore, a doverci prendere cura di loro? Per quale motivo abbiamo tradito la vocazione di fratelli? Perché abbiamo esercitato – ed esercitiamo – ogni forma di violenza, ogni forma di sadismo, di crudeltà? A chi abbiamo prestato il nostro volto? I nostri fratelli minori gridano la loro disperazione, gridano il terrore. Gridano e le loro grida non sono molto lontane dalle trombe dell’apocalisse. Assassinando la natura, assassiniamo noi stessi. Ci assassiniamo perché ben presto mancheranno le risorse per andare avanti. Mancherà l’aria, mancheranno la pioggia e l’acqua. Nella nostra supposta superiorità, ci crediamo gli unici degni di vivere. Senza ricordare che noi siamo quello che siamo perché un giorno gli aminoacidi si sono raccolti in catene, perché si sono formate le cellule ed un batterio, infilandosi nella cellula, è diventato un mitocondrio. E’ successo così per tutti: per il protozoo, per l’alga unicellulare e per tutte le forme di vita che ci hanno preceduto, costituendoci. Al nostro interno giace la memoria di ogni forma evolutiva precedente e anche la memoria di ciò che non è mai stato vivo. Dentro di noi sognano anche il sasso, la terra, la sabbia. Perché il sasso, la terra, la sabbia sono stati la piattaforma da cui si è lanciata la vita. Come si può essere cosi sciocchi da pensare che la redenzione e la salvezza si compia soltanto nell’uomo! Si salverà tutta le creazione oppure non si salverà neanche l’uomo. Non resterà solo a custodire un palazzo ormai vuoto”.
L’aver abbandonato quest’idea – l’idea cioè che la vita è un percorso di condivisione, di responsabilità reciproca e di apertura della mente e del cuore – ci ha portato a vedere gli animali unicamente come cose, merci. Ogni crudeltà è lecita nei loro confronti, dato che sono al nostro servizio. Possiamo torturare un cane per il nostro piacere, dare fuoco a un gatto per divertirci, sparare a tutto ciò che si muove e chiamare questa carneficina ‘sport’ ma queste sono ancora forme arcaiche e limitate di sadismo, che ormai convive con un sempre più diffuso menefreghismo, sentimento principe di questi nostri tempi. Per menefreghismo, un cane può passare la sua intera vita legato a una catena di due metri e un pappagallo starsene da solo in una gabbia minuscola, tanto, si pensa, è solo un animale, non può protestare, dimenticando che la parola ‘animale’ deriva proprio da ‘anima’.
Il grande crimine di questi tempi, però – crimine che ci porta dalla stupidità, al sadismo dritti verso il baratro dell’apocalisse – è il crimine dell’industria alimentare della carne. In un sistema capitalistico avanzato come il nostro, ogni cosa deve rendere a fronte del minor costo possibile, così mucche, polli, tacchini, maiali, conigli sono diventati soltanto macchine da profitto, ammassati gli uni agli altri, senza luce, senza aria, senza potersi muovere. Già negli anni Ottanta mia nonna non mangiava carne. “Non posso” diceva, “è carne di martire”. Effettivamente, come altro si potrebbe definire la carne di quei corpi devastati dalla sofferenza? E non era ancora, credo, intervenuta la genetica, che ha permesso di modificare gli animali per accrescerne il rendimento, trasformandoli in malati cronici, incapaci di reggersi sulle zampe, logorati dallo stress, bisognosi di continue cure mediche per sopravvivere. Come si può pensare che tutto questo dolore non cambi l’assetto del mondo? Come si può credere che tutta l’energia disperata di queste creature non intervenga nei nostri equilibri? Interviene perché la mangiamo, perché nutriamo i nostri figli e i nostri nipoti con questo veleno e perché, se l’universo è uno, e ogni cosa è interdipendente dall’altra, questo oceano di dolore innocente non può che provocare profonde e violente ribellioni della natura. Ne eravamo i custodi, siamo diventati i suoi aguzzini. In tutto questo c’è il ritratto dell’uomo che, invece di aprirsi al mistero e di accogliere l’amore come via di conoscenza delle cose, ha deciso di prostrarsi davanti al Vitello d’oro.
La religione poi, che avrebbe avuto il dovere di portarci in intimità con le creature, di farci sentire la loro santità innocente, ha costruito una muraglia di moralismi per allontanare l’uomo dalla profondità di se stesso e dal mistero del mondo che lo circonda. Lontana dal soffio dello Spirito – che è il soffio della vita – ha trovato il suo senso nell’analisi e nei distinguo, per cui o ami l’uomo o ami gli animali. Aut aut. Così l’amore – che è il sentimento della consapevolezza e della omnicomprensione – è diventato il sentimento della misura e della separazione. Chi pensa ai cani, ai gatti, agli animali è un egoista perché non pensa ai bambini che muoiono di fame. Quante volte c’è toccato sentire questa litania? E se invece di aut aut l’amore fosse et et? L’amore per l’uomo non esclude quello per gli animali, e viceversa, perché l’amore non è mai fonte di separazione né di giudizio.
Chi ama, ama e basta.
Chi ama e separa, non ha mai iniziato a farlo.